L’opera di Bernanos si propone
come una “finestra sull’anima”. Tutta la produzione dello scrittore, sia narrativa
che saggistica, rivela l’urgenza di denunciare il pericolo di subire o, ancor
peggio, di costruire una società sempre più senz’anima, dando forma a una vita
vissuta nel vuoto dell’apparenza e intessuta di «impostura».
Bernanos sperimenta un’insostenibile
angoscia dinanzi alla mediocrità e alla menzogna che nascondono l’uomo a se
stesso, causando relazioni inautentiche, poiché la non-pienezza/illusorietà del
sé impedisce la nascita e ogni possibile crescita del “noi”.
«Occorre
affrettarsi a salvare l'uomo, perché domani non sarà più in grado di esserlo,
per il fatto che non vorrà più essere salvato. Infatti se questa civiltà è folle,
essa forma anche dei folli».
Il grande pericolo sarà
allora quello di rinunciare alla propria verità interiore, prostituendo la
propria anima, fino a «liberarsi della
libertà» per evitarne le responsabilità, fluendo in un anonimo vortice,
dove tutto e il contrario di tutto sono possibili.
Travolti da un ritmo
vertiginoso, ci si lascia ricoprire da molte maschere, spesso ignorando la propria
verità profonda.
«Oggi non ci sono molti uomini liberi. Per esser un uomo libero non è sufficiente
avere le abitudini e il gusto della libertà, come vorrebbero farci credere gli
adulatori della democrazia. Quando prediligiamo le nostre libertà per i
vantaggi, i benefici e il benessere che ne ricaviamo, non siamo affatto uomini
liberi.
La
libertà non è solo un bene di cui si gioisce, un capitale da cui si ricavano degli
interessi, ma una realtà vivente che noi alimentiamo con la nostra sostanza, e
che, animata da un principio spirituale la cui sorgente è la nostra anima,
rischia ad ogni istante, come noi, con noi, la sua salvezza o la sua dannazione».
Spesso ci si illude di
essere liberi e di poter raggiungere la felicità, dimenticando che felicità e
verità non sono scindibili, pertanto se si misconosce l’anima delle cose e di
sé, non potrà esserci quella «semplicità»
dell’essere che Bernanos chiama «riconciliazione».
«Il
mio combattimento ha avuto fine. Sono finalmente riconciliato con me stesso».
Queste parole
pronunciate dal protagonista del Diario
di un curato di campagna poco prima della sua morte identificano l’itinerario
spirituale del giovane prete. Il Diario,
una fra le opere più conosciute di Bernanos, altro non è che la “storia di
un’anima” (voluto questo riferimento a Thérèse de Lisieux, ispiratrice di
Bernanos e iscritta nella prossima Biennale degli Anniversari Unesco ‒ 150º
anniversario della nascita di Thérèse Martin, 2 gennaio 1873).
È la storia dell’anima
del giovane curato di Ambricourt, parroco di una comunità «divorata dalla noia» che, nonostante le sue molte fragilità, sceglie
ogni giorno di aiutare i suoi parrocchiani a guardarsi dentro e a tirar fuori
il loro «segreto», per ritornare a
vivere autenticamente.
Il curato, con umile e
plenaria semplicità, non rinnega il buio in cui vive, accetta di abitare la sua
«notte», ha paura, ma non
indietreggia dinanzi al «muro nero».
Non riuscendo neppure a pregare, sceglie di servirsi della scrittura per non
perdere il contatto con la sua anima. Prende così forma il diario, «un quaderno da due soldi» dove trascrive
la sua vita d’ogni giorno, pratica che si rivela come segno di una sfida a
perseverare nella fede e nell’amore.
Nell’indimenticabile
dialogo del curato con la contessa, si manifestano alcune significative
declinazioni della “visione” di Bernanos sull’uomo. Spesso la parte più
significativa della persona viene incapsulata in una piega dell’anima,
imbozzolata da maschere e menzogne e quel «segreto»
falsa ogni relazione. La contessa, ad esempio, appare a tutti come una donna forte,
osservante i principi evangelici; la sua anima è invece lacerata nell’intimo a
causa della morte del figlioletto, che l’ha condotta a rinnegare la sua fede in
un Dio Amore.
«Infine eccovi faccia a faccia, Lui e voi!» esclama il curato
rivolgendosi alla contessa. In questa scena fortemente drammatica, che
costituisce la parte centrale del Diario,
articolata da significative sfumature e profonde suggestioni e riflessioni, se la
contessa è posta di fronte a se stessa, al suo segreto, alle sue relazioni con
gli altri e con Dio, così il lettore, posto dinanzi alla narrazione e ai
personaggi, si ritrova a guardare dentro di sé, ricercando il centro
nell’intimità della sua anima, il punto di riconciliazione tra i suoi tanti “io”.
Il «faccia a faccia» è una tra le cifre più significative del tessuto
narrativo bernanosiano. La dimensione relazionale, il dialogo tra le anime è
un’esigenza irrinunciabile per chi vuol vivere da vero vivente. E così, nei
suoi romanzi, lo scrittore dona forma alle varie possibili declinazioni del
dialogo che, per essere autentico e liberante, deve costruirsi su un confronto
sincero, semplice, trasparente, uno spazio/tempo in cui non c’è posto per i
segreti inconfessati. Solo in una relazione autentica lo spirito si dilata,
l’anima respira, l’invisibile può penetrare e alimentare il visibile.
«Sì, io sono un demolitore di imposture». Subdola, la falsità s’insinua nelle
pieghe più recondite della mente e del cuore delle persone e Bernanos sceglie
di vivere la sua avventura umana e artistica impegnandosi a scavare nel cuore
degli eventi e nel profondo dei suoi personaggi. Si pone come obiettivo di
ricercarne l’anima, anche a costo di essere avviluppato dall’angoscia più
angosciante, proponendo al suo lettore non una superficiale descrizione di
situazioni e personaggi, e neppure una dettagliata analisi della loro
psicologia, ma un’appassionata e ignota avventura alla ricerca della verità,
quand’anche questa possa richiedere l’attraversamento delle tenebre più oscure.
A proposito di Bernanos
si è parlato di «realismo sovrannaturale».
Riuscire a de-scrivere il «segreto dell’anima» sarà infatti, di
libro in libro, con un rigore crescente, l’obiettivo della scrittura
bernanosiana.
La Grande Paura dei ben-pensanti, il primo tra i suoi
scritti polemici (1931), denuncia a più riprese quella paura che immobilizza
l’anima di fronte al rischio del mistero, dell’imponderabile, del “sacro”, suscitando
quello «scandalo della verità» (titolo
di un volume pubblicato nel 1939) che
mette in fuga borghesi perbenisti e preti accomodanti, ma è anche la paura che
fa chiudere gli occhi di fronte allo sfacelo della «civiltà degli automi»
e a
ogni falsa democrazia (La Francia contro
i robots, volume pubblicato nel 1947).
L’ossessione della menzogna è un tema onnipresente nella produzione
bernanosiana, poiché considerata dallo scrittore il cancro dell’anima, una
malefica energia capace di rendere sterile ogni dinamismo interiore. L’impostura è il titolo di uno dei suoi
romanzi, che ha come protagonista un prete che scrive di mistici e santi, di
carità e sacro, ma lo fa da “tecnico”, da raffinato intellettuale animato solo dall’orgoglio.
La sua è una scrittura senz’anima.
L’abate Cénabre unisce
in sé i due personaggi privilegiati da Bernanos, ossia il prete e lo scrittore,
che, in modi diversi, hanno a che fare con la cura delle anime. E che siano i
suoi personaggi preferiti è evidenziato proprio dall’ossessione sperimentata da
Bernanos nei confronti della figura del falso prete e del falso scrittore.
Vivendo senz’amore il loro prezioso ruolo non potranno che causare drammatiche
ricadute proprio nell’anima di coloro di cui dovrebbero prendersi cura.
Cénabre sa di non vivere
più la fede, ma si rifiuta di rivelare la sua verità. Continua a documentarsi
con inappuntabile rigore storico e a scrivere testi apprezzati, ma è come se
scrivesse della carità senza amore, dando così consistenza al suo “segreto”, al
suo inconfessato peccato.
«Non
è né bene, né sicuro considerarsi completamente al riparo, nel proprio sacco di
pelle, dalle avventure dell'anima».
A volte si preferisce fingere pur di non
riconoscere le proprie debolezze, ma in
questo modo, subdolamente, le colpe e i rimorsi assumono «una consistenza e un peso carnale», soffocando ogni respiro
dell’anima.
«Si
preferisce quel genere di sofferenza oscura alla necessità di arrossire davanti
a se stessi, ma, cosi facendo, avete immesso il peccato nel pieno della vostra
carne, e il mostro non muore perché ha una duplice natura. S'impingua meravigliosamente
del vostro sangue, ne approfitterà come un cancro, tenace, assiduo, lasciandovi
vivere a vostro talento, muovere liberamente, sanissimo di aspetto, soltanto
inquieto. Continuerete così sempre più scisso segretamente dagli altri e da voi
stesso, con l’anima e il corpo disgiunti in un divorzio essenziale, in quel
mezzo torpore che d'un tratto dissiperà il rombo dell'angoscia: dell'angoscia,
forma odiosa e corporea del rimorso. Vi desterete nella disperazione che nessun
pentimento può redimere, perché in quello stesso attimo la vostra anima muore».
Il cammino dell’amore
conduce alla trasparenza dell’anima e alla riconciliazione interiore, mentre la
scelta dell’impostura conduce al «gelo» interiore,
all’«inferno», che Bernanos identifica con l’incapacità di condividere
e di amare: «L’inferno è non amare più».
Già, l’inferno non sono
gli altri, ma siamo noi, quando nella parte vitale del nostro essere lasciamo
atrofizzare i muscoli dell’anima, dimenticando la vocazione universale e vitale
all’Amore.
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* Articolo pubblicato su Luoghi dell'Infinito ‒ Avvenire, gennaio 2023.