18 ottobre 2023

MALE-DIRE o BENE-DIRE

LE PAROLE DELL'ODIO E LE PAROLE DELLA PACE

 
    La storia, quella di ciascuno di noi e quella dell'intera comunità umana, è un intreccio di fatti, ma i fatti non nascono dal nulla ed è indiscutibile che, nella narrazione dei fatti, le parole incidono in modo significativo.

    Non è necessario essere specialisti del linguaggio per rendersi conto di come le parole di tutti i giorni siano diventate sempre più violente e aggressive.
    La tossicità del linguaggio si è infiltrata nella comunicazione in modo subdolo e spesso non ci si accorge neppure più della quantità di odio presente nel parlare quotidiano: in famiglia, al lavoro, a scuola, per strada. Un'attenzione particolare merita poi il linguaggio online e le innumerevoli pratiche violente rese possibili dagli strumenti tecnologici.
Se non la smetti di gridare ti ammazzo!
Lei è un incompetente! Se potessi, la licenzierei subito!
Quest'anno ti boccio, così non ti dovrò più sopportare in classe.
Pezzo di m***a! Ti potesse schiacciare un camion...!
Parole deumanizzate e deumanizzanti.

    Ma forse anche noi, senza rendercene conto, non solo ascoltiamo, ma talvolta pronunciamo parole che feriscono, parole che creano divisione, parole che "uccidono".

    Se nulla possiamo sulle guerre che insanguinano il mondo, possiamo però contribuire a rieducare il nostro linguaggio, perché non sia mai un veicolo di odio, piuttosto uno strumento di dialogo e di pace.
Un tempo/spazio rassicurante e umano.
Un Possibile Ponte Pacificante.

* Scultura di Bruno Morelli, 1982.

12 giugno 2023

Per una fraternità possibile

Un mio testo dedicato a Biagio Conte, inserito nella Rassegna di Scritture 2023 dal titolo LA VITA, SEMPRE, promossa dall’Associazione Partecipalermo.

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 Dov’è la disperazione
ch’io porti la speranza.
Francesco d’Assisi


Si vive la vita”, “ha tutto”. Così si usa dire di qualcuno a cui, almeno in apparenza, non manca nulla.
      Ma lui sapeva di non essere “vivo”. E quel che aveva lo lasciò, per cercare la sua vera vita. Lasciò persone e cose, andò via, si nascose, cercò, digiunò, pregò e qualcosa avvenne.
    Quando sogni e speri la Luce arriva, anche se accompagnata quasi sempre dalla Croce. «Per crucem ad Lucem». E allora prende forma l’Amore vero.

Si ritrovò col suo cane "Libertà" in quel di Assisi. Capì, accolse, accettò, ritornò a Palermo. E fu una nuova nascita. Una rinascita.
  Trent’anni vissuti per gli altri a combattere per la giustizia contro ogni forma di indifferenza, per stare accanto agli ultimi della terra, facendosi uno di loro, dando voce a chi non ha voce, a chi non ha nulla.
 Fu padre, fratello, amico di chiunque avesse bisogno.
  Carezzava le piaghe dei sofferenti con i suoi occhi di cielo e avvolgeva col suo benevolo silenzio e con il suo sorriso le ferite sanguinanti del corpo e dell’anima dei diseredati che incontrava sul suo cammino.
    La Stazione centrale fu la prima tappa. Pasti caldi, coperte e accoglienza.
    Poi la Missione di via Archirafi prese forma. E la sede femminile di via Garibaldi.
    Digiuni prolungati, eremitaggio ed estenuanti pellegrinaggi per dar corpo ai suoi sogni di umanità.
   Fu un combattente pacifico, ma col suo bastone parlante era capace di sferzare l’ignavia di tanti. Paziente e temerario.
   Per anni «voce nel deserto», spesso circondato dalla derisione o da una polemica incomprensione. Per molti, nient’altro che un visionario. Per altri un pazzo.
    Ma lui camminava instancabile con i suoi sandali impolverati per le strade di Palermo e del mondo per scuotere le coscienze addormentate.
    A piedi, camminava. Con la croce. Con i suoi occhi sorridenti, per difendere i diritti di ogni essere umano e la sua passione per la vita, per ogni forma di vita. La natura, gli animali, l’arte, la musica e l’umanità, in particolare quella sofferente, dove ritrovava il volto del suo Gesù.
    Con sguardo profondo e disarmante raccontava il Vangelo in modo credibile.
    Parlava col suo corpo: le sue mani toccavano membra ferite e insieme lavoravano per dare forma a “sogni” per migliorare la vita di molti, mentre i suoi piedi camminavano verso un Altrove. Ma non solo gesti né solo parole. Un sacro silenzio promanava dalla sua persona, costantemente immersa nella preghiera.
   Saio, Sandali, Sguardo, Sorriso, Sollecitudine. Straordinaria Semplicità della Speranza.
  Ed ecco che in fondo al budello dei Decollati prende forma un miracolo. Dopo innumerevoli incontri e scontri, in uno spazio abbandonato da decenni, nasce la Cittadella del Povero e della Speranza. Centinaia di persone oggi ci abitano e ci lavorano. Lì si respira la fraternità, unica declinazione della vita vera, perché «se ciascuno fa qualcosa insieme si può fare molto».
   Aveva fatto sue queste parole di Pino Puglisi, le aveva vissute, condivise e testimoniate. Chi lo incontrava sapeva bene che per lui non erano solo parole, ma il dinamismo della sua esistenza.
    Nonostante le difficoltà, gli ostacoli insormontabili e una sofferta solitudine lui fu – e lo sarà per sempre – un testimone e un seminatore di Speranza.
    A tutti lascia la responsabilità di essere più umani. Più accoglienti. Perché con la sua esistenza ha testimoniato quale sia il valore della vita, di ogni vita umana.
   Lui l’aveva compreso quanto fosse prezioso questo dono e per questo ha scelto di prendersi cura della vita di tanti.
    A bianchi o neri, uomini o donne, credenti e non, a persone senza futuro ha regalato la speranza di ritornare a vivere, e di vivere come fratelli.
    Mite e battagliero, realista e sognatore, testimone del primato della Vita, dell’Amore, di una fraternità possibile, lui…
    fratel Biagio.

                                                                                                            

Rassegna di Scritture pubblicata come ebook sfogliabile sulla pagina di Partecipalermo al seguente link:

* Per chi non fosse su Facebook, ecco il link diretto:


07 marzo 2023

UNA FINESTRA SULL'ANIMA

 


     L’opera di Bernanos si propone come una “finestra sull’anima”. Tutta la produzione dello scrittore, sia narrativa che saggistica, rivela l’urgenza di denunciare il pericolo di subire o, ancor peggio, di costruire una società sempre più senz’anima, dando forma a una vita vissuta nel vuoto dell’apparenza e intessuta di «impostura».
     Bernanos sperimenta un’insostenibile angoscia dinanzi alla mediocrità e alla menzogna che nascondono l’uomo a se stesso, causando relazioni inautentiche, poiché la non-pienezza/illusorietà del sé impedisce la nascita e ogni possibile crescita del “noi”.

 «Occorre affrettarsi a salvare l'uomo, perché domani non sarà più in grado di esserlo, per il fatto che non vorrà più essere salvato. Infatti se questa civiltà è folle, essa forma anche dei folli».

      Il grande pericolo sarà allora quello di rinunciare alla propria verità interiore, prostituendo la propria anima, fino a «liberarsi della libertà» per evitarne le responsabilità, fluendo in un anonimo vortice, dove tutto e il contrario di tutto sono possibili.
       Travolti da un ritmo vertiginoso, ci si lascia ricoprire da molte maschere, spesso ignorando la propria verità profonda.

 «Oggi non ci sono molti uomini liberi. Per esser un uomo libero non è sufficiente avere le abitudini e il gusto della libertà, come vorrebbero farci credere gli adulatori della democrazia. Quando prediligiamo le nostre libertà per i vantaggi, i benefici e il benessere che ne ricaviamo, non siamo affatto uomini liberi.

La libertà non è solo un bene di cui si gioisce, un capitale da cui si ricavano degli interessi, ma una realtà vivente che noi alimentiamo con la nostra sostanza, e che, animata da un principio spirituale la cui sorgente è la nostra anima, rischia ad ogni istante, come noi, con noi, la sua salvezza o la sua dannazione».  

 Spesso ci si illude di essere liberi e di poter raggiungere la felicità, dimenticando che felicità e verità non sono scindibili, pertanto se si misconosce l’anima delle cose e di sé, non potrà esserci quella «semplicità» dell’essere che Bernanos chiama «riconciliazione».

 
«Il mio combattimento ha avuto fine. Sono finalmente riconciliato con me stesso».

 Queste parole pronunciate dal protagonista del Diario di un curato di campagna poco prima della sua morte identificano l’itinerario spirituale del giovane prete. Il Diario, una fra le opere più conosciute di Bernanos, altro non è che la “storia di un’anima” (voluto questo riferimento a Thérèse de Lisieux, ispiratrice di Bernanos e iscritta nella prossima Biennale degli Anniversari Unesco ‒ 150º anniversario della nascita di Thérèse Martin, 2 gennaio 1873).

È la storia dell’anima del giovane curato di Ambricourt, parroco di una comunità «divorata dalla noia» che, nonostante le sue molte fragilità, sceglie ogni giorno di aiutare i suoi parrocchiani a guardarsi dentro e a tirar fuori il loro «segreto», per ritornare a vivere autenticamente.

Il curato, con umile e plenaria semplicità, non rinnega il buio in cui vive, accetta di abitare la sua «notte», ha paura, ma non indietreggia dinanzi al «muro nero». Non riuscendo neppure a pregare, sceglie di servirsi della scrittura per non perdere il contatto con la sua anima. Prende così forma il diario, «un quaderno da due soldi» dove trascrive la sua vita d’ogni giorno, pratica che si rivela come segno di una sfida a perseverare nella fede e nell’amore.

Nell’indimenticabile dialogo del curato con la contessa, si manifestano alcune significative declinazioni della “visione” di Bernanos sull’uomo. Spesso la parte più significativa della persona viene incapsulata in una piega dell’anima, imbozzolata da maschere e menzogne e quel «segreto» falsa ogni relazione. La contessa, ad esempio, appare a tutti come una donna forte, osservante i principi evangelici; la sua anima è invece lacerata nell’intimo a causa della morte del figlioletto, che l’ha condotta a rinnegare la sua fede in un Dio Amore.

«Infine eccovi faccia a faccia, Lui e voi!» esclama il curato rivolgendosi alla contessa. In questa scena fortemente drammatica, che costituisce la parte centrale del Diario, articolata da significative sfumature e profonde suggestioni e riflessioni, se la contessa è posta di fronte a se stessa, al suo segreto, alle sue relazioni con gli altri e con Dio, così il lettore, posto dinanzi alla narrazione e ai personaggi, si ritrova a guardare dentro di sé, ricercando il centro nell’intimità della sua anima, il punto di riconciliazione tra i suoi tanti “io”.

Il «faccia a faccia» è una tra le cifre più significative del tessuto narrativo bernanosiano. La dimensione relazionale, il dialogo tra le anime è un’esigenza irrinunciabile per chi vuol vivere da vero vivente. E così, nei suoi romanzi, lo scrittore dona forma alle varie possibili declinazioni del dialogo che, per essere autentico e liberante, deve costruirsi su un confronto sincero, semplice, trasparente, uno spazio/tempo in cui non c’è posto per i segreti inconfessati. Solo in una relazione autentica lo spirito si dilata, l’anima respira, l’invisibile può penetrare e alimentare il visibile.

 «Sì, io sono un demolitore di imposture». Subdola, la falsità s’insinua nelle pieghe più recondite della mente e del cuore delle persone e Bernanos sceglie di vivere la sua avventura umana e artistica impegnandosi a scavare nel cuore degli eventi e nel profondo dei suoi personaggi. Si pone come obiettivo di ricercarne l’anima, anche a costo di essere avviluppato dall’angoscia più angosciante, proponendo al suo lettore non una superficiale descrizione di situazioni e personaggi, e neppure una dettagliata analisi della loro psicologia, ma un’appassionata e ignota avventura alla ricerca della verità, quand’anche questa possa richiedere l’attraversamento delle tenebre più oscure.  

A proposito di Bernanos si è parlato di «realismo sovrannaturale». Riuscire a de-scrivere il «segreto dell’anima» sarà infatti, di libro in libro, con un rigore crescente, l’obiettivo della scrittura bernanosiana.

La Grande Paura dei ben-pensanti, il primo tra i suoi scritti polemici (1931), denuncia a più riprese quella paura che immobilizza l’anima di fronte al rischio del mistero, dell’imponderabile, del “sacro”, suscitando quello «scandalo della verità» (titolo di un volume pubblicato nel 1939) che mette in fuga borghesi perbenisti e preti accomodanti, ma è anche la paura che fa chiudere gli occhi di fronte allo sfacelo della «civiltà degli automi» e a ogni falsa democrazia (La Francia contro i robots, volume pubblicato nel 1947).

 L’ossessione della menzogna è un tema onnipresente nella produzione bernanosiana, poiché considerata dallo scrittore il cancro dell’anima, una malefica energia capace di rendere sterile ogni dinamismo interiore. L’impostura è il titolo di uno dei suoi romanzi, che ha come protagonista un prete che scrive di mistici e santi, di carità e sacro, ma lo fa da “tecnico”, da raffinato intellettuale animato solo dall’orgoglio. La sua è una scrittura senz’anima.

L’abate Cénabre unisce in sé i due personaggi privilegiati da Bernanos, ossia il prete e lo scrittore, che, in modi diversi, hanno a che fare con la cura delle anime. E che siano i suoi personaggi preferiti è evidenziato proprio dall’ossessione sperimentata da Bernanos nei confronti della figura del falso prete e del falso scrittore. Vivendo senz’amore il loro prezioso ruolo non potranno che causare drammatiche ricadute proprio nell’anima di coloro di cui dovrebbero prendersi cura.

Cénabre sa di non vivere più la fede, ma si rifiuta di rivelare la sua verità. Continua a documentarsi con inappuntabile rigore storico e a scrivere testi apprezzati, ma è come se scrivesse della carità senza amore, dando così consistenza al suo “segreto”, al suo inconfessato peccato.

 

«Non è né bene, né sicuro considerarsi completamente al riparo, nel proprio sacco di pelle, dalle avventure dell'anima».

 A volte si preferisce fingere pur di non riconoscere le proprie debolezze, ma  in questo modo, subdolamente, le colpe e i rimorsi assumono «una consistenza e un peso carnale», soffocando ogni respiro dell’anima.

 
«Si preferisce quel genere di sofferenza oscura alla necessità di arrossire davanti a se stessi, ma, cosi facendo, avete immesso il peccato nel pieno della vostra carne, e il mostro non muore perché ha una duplice natura. S'impingua meravigliosamente del vostro sangue, ne approfitterà come un cancro, tenace, assiduo, lasciandovi vivere a vostro talento, muovere liberamente, sanissimo di aspetto, soltanto inquieto. Continuerete così sempre più scisso segretamente dagli altri e da voi stesso, con l’anima e il corpo disgiunti in un divorzio essenziale, in quel mezzo torpore che d'un tratto dissiperà il rombo dell'angoscia: dell'angoscia, forma odiosa e corporea del rimorso. Vi desterete nella disperazione che nessun pentimento può redimere, perché in quello stesso attimo la vostra anima muore».

Il cammino dell’amore conduce alla trasparenza dell’anima e alla riconciliazione interiore, mentre la scelta dell’impostura conduce al «gelo» interiore, all’«inferno», che Bernanos identifica con l’incapacità di condividere e di amare: «L’inferno è non amare più».
      Già, l’inferno non sono gli altri, ma siamo noi, quando nella parte vitale del nostro essere lasciamo atrofizzare i muscoli dell’anima, dimenticando la vocazione universale e vitale all’Amore.

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* Articolo pubblicato su Luoghi dell'Infinito Avvenire, gennaio 2023.